giovedì 15 novembre 2012

...all that you can't leave behind

The only baggage you can bring is all that you can't leave behind”

Giugno 2006

Irlanda. Cliffs of Moher. Le più imponenti scogliere della verde isola.

I tre amici sono a metà del viaggio, sei giorni su dodici.
E' simbolico che proprio in un incredibile giorno soleggiato siano arrivati esattamente qui, in uno dei luoghi più mozzafiato della selvaggia Irlanda occidentale. Hanno depositato i bagagli nell'accogliente bed and breakfast Gleasha Meadows nella vicina e colorata cittadina di Doolin, classico punto di partenza per le ancestrali Isole Aran.
Pochi chilometri e fermano la macchina nell'ampio parcheggio del Visitor Centre delle Cliffs. Poche nuvole bianche in cielo come i barbigli di un vecchio Fortuna-drago e un brillante sole che fa risplendere di luce propria lo splendente oceano atlantico. E' tardo pomeriggio ma c'è abbastanza gente, non potrebbe essere altrimenti, diversi pullman, comitive di turisti. I tre amici li evitano sistematicamente, non vogliono che le loro sensazioni siano contaminate dalla confusione e rapidamente guadagnano le scogliere, si tirano sulla testa i cappucci delle felpe o dei k-way e si immergono nella meraviglia più assoluta.
Il vento è forte quasi da spostarli di peso, il verde litorale è spezzato da queste imponenti “sculture” naturali in strati di vari colori formati per il sovrapporsi di scisti e arenarie popolati da gabbiani, corvi, garze marine. Con la vittoriana O'Brien's Tower sulla loro destra i tre amici si spingono fino al limite delle scogliere, camminano piano perché il vento è fortissimo lassù e anche per godere appieno del tutto che si di-svela davanti ai loro increduli occhi. Si fermano a pochi passi dal salto di duecento metri che precipita nell'oceano. Si siedono uno vicino all'altro, i jeans sfregano sulla nuda pietra.
Quello che puoi vedere da lassù è il mondo, l’infinito. La pulsante distesa di acqua che si estende a perdita d'occhio, che spinge lo sguardo e l'anima oltre il limite fisico a cui tutti siamo abituati. Non c'è nulla di più, i problemi sono rimasti a casa in un altro mondo, forse uno di loro pensa che sarebbe bello portarci la sua compagna, anche l'altro lo pensa, ma non sa se crederci davvero, e l'ultimo pensa e basta, riflette su tutto, davanti a lui l'infinito, l'ignoto, squarci di un futuro appena accennato in quell'immenso oceano di risposte.

Cosa devono aver pensato i primi uomini che sono giunti qui?” si domanda il secondo.

L’immensità che guardi non sarebbe nulla senza qualcuno a guardarla” cita il primo.

Noi siamo l’altro cinquanta per cento dell’immensità, giusto?” chiosa l'ultimo quello che cerca risposte.

Forse hanno pensato davvero questo, forse gli esploratori di queste terre hanno scoperto che prima bisogna essere esploratori del proprio animo.
Il sole sta quasi per immergersi nell'oceano, il tempo è passato senza che i tre amici ne avessero la percezione, prima di andare, come tributo a questo luogo dell'anima, compiono un antico rituale indiano. Bisogna sempre lasciare qualcosa di proprio , di importante, un pezzo del nostro essere, al luogo che in cambio ti ha dato tanto di se stesso. Qualcosa che hai portato con te fino a qui come un bagaglio del passato, qualcosa che ha segnato una parte della tua vita, nella speranza magari di ritornare e trovare il “te stesso” passato e vedere cosa è cambiato negli anni.

In una buca piccola in un punto imprecisato delle Cliffs of Moher, oltre un cartello di divieto di proseguire, lasciano tre oggetti. Una foto, un tesserino scaduto e una preghiera.



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